Fleba il fenicio
di Vincenzo Sparagna - 4-4-2013
"Fleba il fenicio, morto da quindici giorni, il mare gli spolpò le ossa in sussurri. Gentile o giudeo, tu che volgi la ruota e guardi nella direzione del vento, pensa a Fleba, che un giorno fu bello e ben fatto al pari di te”. Gli immortali versi di T.S. Eliot parlano di noi tutti. Ci fanno riflettere sulla vanità e fragilità della vita, ma sono anche un richiamo a una tragedia contemporanea: la morte in mare dei tanti Fleba migranti travolti dalle onde ancor prima di raggiungere le sospirate coste italiane ed europee. I numeri di questa strage sono nell’ordine delle migliaia. Una storia tanto più impressionante, perché l’opinione pubblica sembra del tutto indifferente al dramma. Le notizie sui morti e i dispersi nel Mediterraneo sono ovunque brevi di cronaca. Nessuno si indigna per l’inerzia di una legislazione che blocca la libertà di movimento delle persone costringendole a viaggi rischiosi sul filo della morte. Ancor più paradossale è che quelli che sbarcano vivi, spesso in fuga da guerre e carestie, invece di essere accolti, vengono rinchiusi in campi di concentramento disumani in attesa di una espulsione che li riporti al punto di partenza o li scaraventi, clandestini per legge, nei nuovi ghetti nati sotto i ponti, in edifici abbandonati, in baracche di fortuna. Tra le emergenze di cui le forze politiche parlano e sparlano in questi giorni di crisi congelata, il problema delle stragi in mare e del diritto d’asilo negato non viene mai ricordato. Questi poverissimi tra i poveri non vengono calcolati neppure nelle statistiche ISTAT sulla miseria. Semplicemente scompaiono nei sotterranei sociali, vittime di un razzismo inconfessabile e sfacciato al tempo stesso. Il silenzio che li avvolge è il segno più funesto dell’egoismo cieco che ci sta trascinando tutti, tra un vaffanculo odioso e un ipocrita appello alla responsabilità, in una nuova barbarie.

Vignetta di Fabrizio Fabbri, pubblicata su FRIGIDAIRE n.234 (maggio 2011).
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