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In un intervento di qualche tempo fa, parlando del Partito Democratico, avevo scritto che non era un partito (poiché era la somma di tendenze contrapposte) e non era democratico (poiché incapace di rinnovarsi). Giudizio che si è confermato drammaticamente esatto in questi giorni. D’altra parte per capire la crisi di oggi bisogna risalire alle origini uliviste del PD. Qual’era il progetto dell’Ulivo? Quello di mettere insieme i cosiddetti “progressisti”, una vecchia illusione. Basti pensare al compromesso storico di Moro e Berlinguer. Questo miraggio ha prodotto sempre disastri. Alla fine degli anni ’70 generò il terrorismo sedicente rosso, negli anni ’90 il berlusconismo fascistoide, oggi ha favorito l’ascesa di un confuso movimento di protesta e la rinascita del defunto Berlusconi. Il fatto è che il progressismo è una ideologia ambigua. Negli ultimi due secoli ha coinciso con l’idea dello sviluppo infinito del modo di produzione capitalistico, ovvero con la perdita della libertà e della felicità umana a vantaggio dell’accumulazione di denaro in forme sempre più astratte e nelle mani di élite sempre più ridotte. Mentre per progredire davvero bisognerebbe capovolgere questo modello e cercare un equilibrio solidale dell’umanità con se stessa e con la natura.
Nell’estate del 1976, portandomi appresso un giovanissimo Sandro Ruotolo, che come me scriveva su Il Manifesto, entrai clandestinamente in Argentina per incontrare i compagni Montoneros e dell’Erp (Ejercito Revolucionario del Pueblo) che resistevano in armi alla sanguinosa offensiva dei golpisti del generale Videla. Recavo messaggi dei compagni argentini esuli in Italia, tra i quali soprattutto il caro Rubèn Sergio Caletti, che avevo conosciuto anni prima, quando, fuggito dal Cile di Pinochet attraverso le Ande, avevo raggiunto l’Argentina “liberata” del generale Peròn. Io e Sandro passammo il confine sul Rio Paraguay e venimmo ospitati a Buenos Aires da una compagna montonera, in seguito rifugiata a Parigi. Era un inverno cupo. Ogni giorno sparivano amici, compagne e compagni, si respirava sangue. Uno dei nostri contatti fu sequestrato sotto i nostri occhi, mentre lo aspettavamo nella redazione del Diario de Noticias. Fu ritrovato cadavere due giorni dopo insieme alla sua fidanzata, la bella diciannovenne Paz Alicia, il cui volto bruno mai dimenticherò. Un altro, il responsabile di Interpress, si salvò saltando dalla finestra. Alla fine anche noi fummo individuati e scappammo in un’alba gelida traversando il rosso Rio de La Plata su un motoscafo verso l’Uruguay. Durante quelle settimane clandestine
Siamo all’epilogo di una commedia tragica: dopo le incredibili giravolte degli ultimi giorni, l’intero universo politico della vera destra berlusconiana e della pseudosinistra democratica si è ricompattato intorno alla ricandidatura di Giorgio Napolitano alla Presidenza della Repubblica. Non è il colpo di Stato di cui parla, con la consueta esagerazione paradossale, Beppe Grillo, ma non è neppure un normale passaggio democratico. Si tratta di una svolta grave, anzi gravissima, forse l’atto conclusivo della postdemocrazia bipolare, ormai trasformata in una nuova forma di dittatura dell’imbecillità. Ora assisteremo alla nuova Santa Alleanza della destra mafiosa e imbrogliona con una sedicente sinistra incapace di liberarsi della sua idiozia, corrotta e paralizzata. La candidatura alla Presidenza di Stefano Rodotà era l’occasione per aprire la strada a un profondo rinnovamento delle istituzioni e della Repubblica. Il ritorno di Giorgio Napolitano, con la conseguente formazione di un governicchio impotente, che viene chiamato governissimo grazie all’uso capovolto e orwelliano del linguaggio, è uno schiaffo pesante
"Fleba il fenicio, morto da quindici giorni, il mare gli spolpò le ossa in sussurri. Gentile o giudeo, tu che volgi la ruota e guardi nella direzione del vento, pensa a Fleba, che un giorno fu bello e ben fatto al pari di te”. Gli immortali versi di T.S. Eliot parlano di noi tutti. Ci fanno riflettere sulla vanità e fragilità della vita, ma sono anche un richiamo a una tragedia contemporanea: la morte in mare dei tanti Fleba migranti travolti dalle onde ancor prima di raggiungere le sospirate coste italiane ed europee. I numeri di questa strage sono nell’ordine delle migliaia. Una storia tanto più impressionante, perché l’opinione pubblica sembra del tutto 
indifferente al dramma. Le notizie sui morti e i dispersi nel Mediterraneo sono ovunque brevi di cronaca. Nessuno si indigna per l’inerzia di una legislazione che blocca la libertà di movimento delle persone costringendole a viaggi rischiosi sul filo della morte. Ancor più paradossale è che quelli che sbarcano vivi, spesso in fuga da guerre e carestie, invece di essere accolti, vengono rinchiusi in campi di concentramento disumani in attesa di una espulsione che li riporti al punto di partenza o li scaraventi, clandestini per legge, nei nuovi ghetti nati sotto i ponti, in edifici abbandonati, in baracche di fortuna. Tra le emergenze di cui le forze politiche
Quello che più addolora nello scenario politico italiano è la cultura dell’odio, alimentata da un bipolarismo bastardo fondato sull’eliminazione dei nemici, formalmente chiamati avversari, ma di cui in realtà si auspica la scomparsa. Questa cultura dell’odio ha avuto tra i suoi principali promotori il cavalier Berlusca, i suoi giornali (Libero e Il Giornale) e le sue TV, ma troppo spesso è stata assimilata come un veleno sottile anche dal fronte opposto. Per anni, mentre a destra si lanciavano incredibili campagne contro un comunismo inesistente, a sinistra si identificavano tutti i mali dell’Italia con Berlusconi e la sua banda di arrampicatori senza scrupoli. Questo conflitto ha oscurato il fatto che la malattia profonda che fa boccheggiare oggi non solo l’Italia, ma il mondo intero, non è la cattiveria di questo o quel soggetto, ma la malvagità intrinseca del sistema capitalistico nel suo insieme, di cui purtroppo tutti siamo vittime. Questo sistema, che si fonda sul principio atroce dell’homo homini lupus, non può essere
I parlamentari cosiddetti grillini devono decidere se la legislatura andrà avanti grazie alla loro partecipazione a una maggioranza guidata dal PD o verrà presto interrotta. La predicazione rabbiosa del guru Grillo li ha premiati portandoli in massa in Parlamento, ma ora vengono al pettine le debolezze di una linea avvelenata da un equivoco mortale: la presunta identità tra destra e sinistra. È vero che in questi anni (lo denuncio da sempre) le convergenze tra l’orrenda destra italiana e la sedicente sinistra moderata sono state molte. Su diverse battaglie di grande valore simbolico e pratico, come quella contro la TAV, la sinistra parlamentare si è schierata su posizioni inconciliabili con i movimenti. E l’onda marcia del berlusconismo ha corrotto anche troppi “progressisti” in una vergognosa gara a chi rubava di più. Ma questa deriva fangosa non ha cancellato le radicali differenze tra chi rappresenta in ultima analisi i ricchi e chi i poveri, tra i potenti e gli oppressi. Certo, come un malato che cammina a fatica, la sinistra di oggi ha bisogno di disintossicarsi da tanti moderatismi ed estremismi arcaici, aprirsi a nuove idee, fare
Quando Antonio Gramsci dovette scegliere nel 1924 un nome per il quotidiano del suo Partito Comunista lo chiamò Unità. Non era solo una testata, ma un concetto. In origine il termine si riferiva all’unità tra operai e contadini, ma nella riflessione gramsciana (approfondita poi negli anni del carcere) l’idea si estendeva anche alla piccola borghesia, agli intellettuali, dunque al “popolo” inteso nella sua infinita varietà di ceti, classi e condizioni. Questa idea, va sottolineato, è profondamente moderna. Per capirci è l’opposto del coetaneo concetto leninista di partito/avanguardia del proletariato. Perché il partito leninista nasce per occupare il vuoto sociale determinato dalla vecchia struttura feudale zarista. Il suo ruolo è di supplenza, si pone come una guida sostanzialmente esterna al sociale. Non a caso il partito leninista era formato da rivoluzionari di professione e la sua ossessione non era l’unità, ma la scissione. Lenin lavorò infatti a dividere i socialdemocratici con l’obiettivo di forgiare uno stato maggiore quasi militare,
"Se ci sarà da mettere insieme Monti e Vendola sarò io a dirigere il traffico”. Il vigile urbano in questione è Pierluigi Bersani, l’unico candidato premier che, viste le assurde regole del porcellum, ha la possibilità di fermare lo scombinato quanto pericoloso esercito elettorale berlusconiano. Il paradosso della postdemocrazia italiana, prigioniera dei mostruosi premi di maggioranza e delle liste bloccate, è tutto qui. Ormai votare per un partito o per l’altro
A sentire le mirabolanti promesse fasulle dei berluscones, inseguiti con più decoro, ma non minore cialtroneria dai loro concorrenti, insomma a star dietro alle battute a effetto, agli impegni immaginari e al rumore mediatico dell’attuale campagna elettorale, viene il forte sospetto che il vero malato di oggi sia la democrazia stessa. Non solo perché è avvilita da una legge elettorale indecente, ma perché sembra svuotata del suo principio ispiratore: l’autogoverno del popolo.
Quando leggerete queste righe saranno passati un bel po’ di giorni dal seguitissimo intervento di Berlusconi alla trasmissione Servizio Pubblico.
Certamente fior fiore di commentatori si saranno cimentati nell’analizzare chi ha vinto e chi ha perso, chi ci ha guadagnato in soldi e in audience e chi in consensi. Eppure ho il fondato sospetto che, nel clima di generale decadenza del costume politico italiano, a quasi tutti sarà sfuggito il nocciolo essenziale, il segreto
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